Intervista a Gianluigi Trovesi nel numero di Marzo di Musica Jazz
Tu, Gianluigi, sei un jazzista un pò singolare: per ciò che suoni, per quello a cui ti ispiri, e ti sei fatto conoscere non prima del 1978, quando avevi già trentaquattro anni. Ma oggi sei ai vertici: il presidente Ciampi ti fa Ufficiale della Repubblica e ci sono studenti che si laureano con tesi sulla tua arte. Abbastanza per partire dall’inizio e chiederti dove, quando e come tu abbia potuto incontrare la musica.
L’ho trovata nel mio cortile, in Val Seriana, a Nembro, nel momento in cui sono nato. Quel cortile di casa mia, lo dico sempre, era uno dei più musicali del Lombardo-Veneto.
Suonavamo e cantavamo tutti. Mio padre, operaio metalmeccanico,era un buon cantante (come del resto, ma in casa, la mamma) e suonava la batteria. Le prove del suo complessino, che suonava nelle “balere”, erano a casa mia, così anch’io, a quattro anni, picchiavo sui tamburi. In quel cortile c’erano perfino uno che usava il bombardino e uno con il basso tuba. Quest’ultimo era il fratello di Mario Pezzotta,famoso trombonista di jazz, che spesso veniva a trovarlo, e noi ragazzi lì sotto le finestre ad ascoltarli. Era il nostro mito, Pezzotta: suonava con Angelini, appariva in televisione, e per di più arrivava su un’auto americana e con una bellissima signora. Per noi era il massimo del fascino, ci faceva sognare. Ecco la musica che ho incontrato.
Ma qual era il repertorio?
Nel cortile, per via dei famosi radioconcerti Martini & Rossi, un rito dei venerdì sera, l’opera finiva per essere più popolare delle canzoni. Poi dalle balere usciva di tutto, valzer, tanghi, Sanremo, e tutto quanto arrivasse dall’America: Cole Porter, Gershwin. Pensa che addirittura già conoscevo Kurt Weill: Moritat, senza sapere dell’ “Opera da tre soldi”, lo cantavamo tutti.
E il jazz?
Nel quartetto di mio padre c’erano il pittore Gianni Bergamelli al piano, uno che nel jazz ha fatto tante cose, un nostro cugino alla fisarmonica e un clarinettista che faceva il Benny Goodman, poi prendeva il baritono e suonava alla Gerry Mulligan, un grande istintivo. A me piacque subito il
clarinetto, e ne ebbi uno a quattordici anni quando entrai anch’io nella banda: me lo diedero a settembre e all’ultimo dell’anno non che fossi bravo, ma già suonavo “ufficialmente” in un veglione. Era una grande scuola, era come andare a bottega, non diversamente da un garzone di falegname o di fornaio. Lì ho imparato anche a “svisare” (non dicevano “improvvisare”). Ovvio, sentivo anche qualche disco.
Ma gli studi veri?
A quindici anni, dopo le medie, andai a lavorare come ragazzo di studio da un geometra. Il sogno di mio padre era che diventassi un disegnatore. Ma frequentavo già il Conservatorio di Bergamo e mantenendomi con il lavoro mi iscrissi a un corso di clarinetto e poi, con il maestro Fedegara,
studiai per sei anni armonia, contrappunto e fuga, cioè quasi tutto il corso di composizione. Così la mia formazione, oltre che nelle balere, è venuta dallù’avere avuto due-tre volte la settimana per undici anni qualcuno che ti diceva cali, cresci, corri, questo va bene, questo no, rifai. Con il clarinetto come nei compiti di armonia. Mi è servito moltissimo.
Ma alla professione “vera” quando sei arrivato?
Nel frattempo mi ero sposato, e con il diploma di clarinetto insegnavo musica: ho girato le scuole medie di tutta la bergamasca. Ma non pensavo di fare il musicista; pensavo di studiare la musica, di farla, di viverci assieme, per la qual cosa l’insegnamento ai ragazzi andava benissimo: mi costringeva a riflettere. Tutto è cambiato, anzi cominciato, a trentaquattro anni, quando semmai uno decide di smettere. Leggo sul Radiocorriere di un concorso dell’orchestra, definita “ritmica”, della Rai di Milano. Era per primo clarinetto e secondo sassofono, ma passato l’esame, fui primo sax contralto. E là ci sono rimasto quindici anni, tra grandi jazzisti. Ma già prima avevano incominciato a chiamarmi Bergamelli per il festival di Bergamo del ’74, Franco Cerri (con gli amici mi davo arie: “Sai con chi suono? Con Cerri!”), Luigi Bonafede” Per noi il tuo “arrivo” ebbe il nome di Giorgio Gaslini: quel suo gruppo dai due sassofoni, con te e il compianto Gianni Bedori.
Gaslini mi ha permesso di avere una visibilità enorme. Andò così: nel gruppo di Bonafede feci amicizia con Gianni Cazzola, che quando divenne il batterista di Gaslini incominciò a rompergli le scatole: “A Bergamo c’è uno che andrebbe bene per te”. Glielo ripetetti per un anno: nell’estate ’77 Gaslini mi fece sostituire Bedori che era impegnato. Era per una sera, mi tenne anni e nacque quel gruppo. Oltre che a portarci fino in California e a farci incidere un disco a New York, Gaslini al festival di Imola mi diede un ampio spazio. Là mi ascoltò Arrigo Polillo, e mi ascoltò il grande trombonista svedese Eje Thelin, che dovendo invitare due italiani a Stoccolma chiamò Rava e me. Suonai nell’orchestra diretta da Kenny Wheeler e in un duo con Connie Bauer: conobbi il jazz europeo e mi proiettai in quell’ambito. Così oltre a Gaslini e l’orchestra Rai (con la quale ricordo una stagione al Conservatorio di Milano e le direzioni di gente come John Lewis, Mulligan, Wheeler, Boland) avevo le mie avventure nel Nord Europa, in quello che chiamerei free jazz.
Nel ’78 feci anche il primo mio disco, “Baghèt”, parte in solo e parte con Damiani e Cazzola, un trio nato su invito di Adriano Mazzoletti che veniva a registrare l’orchestra Rai. Ricordo, a “Baghèt” demmo il premio della critica: improvvisavi su un antico saltarello. Cominciavano le mie storie, che raccontavo sul sax contralto. Con Gaslini improvvisavo in modo “radicale”, e io cercavo un fil rouge, qualcosa che facesse parte della mia cultura, brani che hai dentro fin da ragazzo o cose che hai studiato, come l’ars nova fiorentina. Il saltarello fiorentino del Trecento l’ho utilizzato come base per le improvvisazioni, che potevano posare anche su una serie dodecafonica. Da lì presi a prediligere il clarinetto basso. Fu Gaslini a spingermi: gli serviva per sonorizzare un film. La mia musica colpì critica e pubblico, e Thielin mi chiese di andar su da loro, in Scandinavia, a raccontare quelle cose. Poi ho suonato con cento e cento, in Italia e fuori. Guai se te li nominassi tutti!
Passiamo ai tuoi gruppi. Che posto ha, tra tutti, l’ottetto?
E’ stato forse la svolta più importante del mio far musica. Vi ho trovato soluzioni che mi appagavano, e la critica mi ha appoggiato: tre dischi e tre vittorie nel Top Jazz. Con quell’organico mi sento un cuoco che può cucinare ogni piatto, avendone gli ingredienti. Le percussioni mi permettono una situazione “etnica”; la batteria è jazz, e così l basso elettrico, mentre il contrabbasso con l’archetto va sulla musica del Novecento; per quest’ultima o per un genere cameristico ho il violoncello. E i tre fiati sono un passepartout. Con l’ottetto, dopo l’ultimo “Fugace”, ho fatto una cosa importante a Colonia: ospitando Stefano Bollani. Io nelle cose sono lento (i critici dovrebbero ringraziarmi, non li sommergo di opere), ma con l’ottetto vorrei fare ancora qualcosa.
L’ottetto più un pianista? Un nonetto lo hai già fatto, e di recente, per un disco Enja: “Round About A Midsummer Dream”.
Non un nonetto: in realtà erano tre distinti trii: uno “barocco” (mio genero Stefano Montanari, mia figlia Stefania, che sono violinisti d’accademia, e il cellista Ballanti), uno “jazz” (con me, Maras alle percussioni e il chitarrista Paolo Manzolini) e uno di “musica popolare” (la fisarmonica di Matinier, il basso di Garcia-Fons e il tamburello di Carlo Rizzo). Alludevo ai tre gruppi sociali del Sogno di Shakespeare: rispettivamente nobiltà, mondo fantastico e popolo degli artigiani.
Altro gruppo, che sta andando fortissimo, il duo con Gianni Coscia.
Ci si conosce da cent’anni. Ora uscirà un nuovo disco per l’Ecm: ne stiamo discutendo il progetto, Eicher lo aspetta. Il bello, con Gianni, è che se abbiamo degli “amori” ci si mette là e si trova insieme una storia. Così abbiamo giocato (e sottolineo il verbo) con la mazurka e con Pinocchio, con la Cumparsita e Fra Martino.
E come inquadri il tuo lavoro con la Italian Instabile Orchestra? Ah, l’Instabile, una grande idea di Pino Minafra e Vittorino Curci. E’ servita e serve per far sapere in giro che un certo modo di fare musica non era morto. E ha permesso a tutti noi di scrivere anche con segni particolari della musica del Novecento. Si potevano cercare suoni non usuali, esprimere emozioni con le tecniche contemporanee. Non forzatamente jazz, anzi anche in contrasto con il jazz.
Già, con le orchestre tu hai un feeling particolare.
Beh, tutti quegli anni alla Rai Ho diretto la Wdr di Colonia, la Bruxelles Jazz Orchestra, quelle dei festival di Guimaraes in Portogallo e di Bergen in Norvegia, e in Francia, per un mio brano, l’Orchestre National de Jazz, quando ne era a capo Damiani. Ma dirigere non è il mio mestiere: basta contare fino a quattro. Io compongo e arrangio, mentre per la strumentazione posso affidarmi ad altri, come Corrado Guarino o Bruno Tommaso.
A questo punto, che altro ci dobbiamo aspettare da te?
Quest’anno due dischi per la Ecm (anzi tre con quello del duo con Coscia). Ora esce “Vaghissimo ritratto”, con Petrin e Maras; ma non è un trio mio: è una cooperativa al 33,33 per cento ciascuno. Tutti brani firmati assieme, più uno a testa. Sono dedicati a personaggi del Cinque e Seicento, come Monteverdi, Luca Marenzio, Josquin Despr’s, Orlando Di Lasso: ogni tanto salta fuori qualcosa di loro. Più un omaggio a un grande bergamasco dell’Ottocento, Alfredo Piatti, e a Brel e Tenco. Si capisce che la finalità è la melodia, ma esce anche un colore un pò nuovo per me.
E l’altro disco?
Sarà, in autunno, “Profumo di Violetta”: vi torna il mio amore per il cortile (quei concerti per radio che dicevo) e per la banda (in particolare, come fa capire la Violetta del titolo, l’opera). Là l’orchestra sarà un esercito di fiati, la Fisarmonica Musiké, che è di Gazzaniga, nella mia valle. La dirige Savino Acquaviva. Con me sono altri due solisti: Remondini al violoncello e Bertoli alle percussioni. Il repertorio della Musiké è moderno: Stravinskij, Hindemith. Ma nell’occasione saranno pezzi d’opera e pezzi miei. Come vedi, in questi nuovi dischi riesco ancora una volta ad accontentare tutte le mie passioni.
Gian Mario Maletto